Commento di Antonio Papisca
L'Articolo 3 è l'articolo che possiamo chiamare «della radice» e che quindi merita più ampio spazio.
La vita, prima ancora di figurare nell'elenco dei diritti fondamentali della persona, è un valore assoluto, perché incarna la dignità umana cui ineriscono, come proclama l'articolo 1, tutti i diritti. Possiamo anche dire che la vita, il rispetto della vita, è il presupposto della legalità. Le Costituzioni democratiche più recenti che dichiarano di fondarsi sulla dignità umana potrebbero anche dire che si fondano sulla vita delle persone. La vita è quella dell'essere umano integrale, fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia, cioè di un soggetto che, oltre che essere libero, deve alimentarsi, fruire di alloggio, di salute, di educazione, di assistenza in caso di necessità. Il rispetto del diritto alla vita comporta la realizzazione di tutti i diritti umani. Separando i diritti civili e politici dai diritti economici, sociali e culturali è come se si squartasse l'essere umano in due parti. La vita è una verità integrale. Il rispetto del diritto alla vita si persegue col rispetto dei principi democratici, dello stato di diritto e, contemporaneamente, con politiche sociali. In questo contesto, l'economia di giustizia è altrettanto essenziale dello Stato di diritto.
Il diritto alla vita è collegato al diritto alla libertà e al diritto alla sicurezza: è la triade vitale, come tale indissociabile. La libertà è un albero: libertà da (dal bisogno: povertà estrema, inquinamento, malattie epidemiche; dal potere prevaricatore: dittature, autoritarismi, partitocrazia, imposizioni di pensiero unico, armi); libertà di (esercitare tutti i diritti di cittadinanza, scegliere questo o quel lavoro, professare questa o quella religione o non credere); libertà per (realizzare un percorso di vita «degna», perseguire insieme obiettivi di bene comune, condividere, accogliere, costruire percorsi di pace positiva).
La sicurezza non è soltanto una percezione, essa è soprattutto la capacità effettiva delle persone di esercitare «le» libertà. Perché sussista effettivamente questa capacità, occorre creare i contesti (educativi, politici, economici) che ne facilitino l'acquisizione e l'esercizio. Sono molto belle ed utili le riflessioni che in questa materia fa Amartya Sen. Nel laboratorio delle Nazioni Unite si è pervenuti alla definizione della sicurezza come «umana» («human security»). Ad aprire la via è stato lo UNDP, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, che ha qualificato di «umano» anche lo sviluppo («human development») corredandolo di puntuali indicatori. Sicurezza umana è sicurezza delle persone e delle comunità umane - «people security» - ed ha contenuto multidimensionale: la sicurezza è economica, sociale, ambientale, di ordine pubblico. La sicurezza dello Stato - «State security» - è, deve essere, funzionale alla sicurezza multidimensionale delle persone.
Secondo l'articolo 3, e in questa prospettiva multidimensionale, le ragioni della sicurezza non possono prevalere su quelle della vita e della libertà, non possono quindi giustificare la violazione di diritti fondamentali. L'articolo 4 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966) prevede che «in caso di pericolo pubblico eccezionale che minacci l'esistenza della nazione» gli Stati possono prendere, in via del tutto eccezionale e provvisoria, misure in deroga agli obblighi imposti dal Patto. Lo stesso articolo sottrae a questa possibilità di «sospensione» delle garanzie gli articoli che fanno riferimento al diritto alla vita, al divieto di tortura e di schiavitù, a taluni principi di carattere processuale, ai diritti alla libertà di pensiero, coscienza e religione. La lotta al terrorismo e alla criminalità deve avvalersi di strumenti compatibili coi diritti umani.
I diritti economici e sociali, i diritti alla pace, allo sviluppo, all'ambiente sano fanno parte del «pacchetto sicurezza» il quale rinvia al principio di interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti.
Il diritto alla sicurezza umana comporta necessariamente, come previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, la messa in funzione di un sistema di sicurezza collettiva a raggio mondiale, comprensivo sia della dimensione «ordine pubblico» sia della dimensione «sicurezza economica e sociale». Nel mondo globalizzato, non ci può essere sicurezza interna senza sicurezza internazionale. Perché ciò avvenga, occorre far funzionare efficacemente le legittime istituzioni multilaterali, a cominciare dall'ONU. Chi pensa di potere garantire la sicurezza multi-dimensionale erigendo muri nazionalistici e localistici, oltre che essere fuori dalla storia, vìola il diritto alla vita e alimenta l'insicurezza.
Il rispetto della vita comporta che si tuteli l'integrità dell'essere umano sempre più messa a repentaglio dalle biotecnologie. Grazie anche all'iniziativa dell'UNESCO, la bioetica viene ancorata al paradigma dei diritti umani. In questa direzione vanno la Dichiarazione universale su «Genoma Umano e Diritti Umani» (1997) e la Dichiarazione universale su «Bioetica e Diritti Umani» (2005) ambedue adottate dalla Conferenza generale dell'UNESCO. Solo all'UNESCO è stato consentito di usare l'aggettivo «universale», in ragione della estrema delicatezza della materia. La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea è perentoria nell'interdire la «clonazione riproduttiva degli esseri umani» (art. 3).
Quando inizia la vita? La Convenzione internazionale sui diritti dei bambini (1989) si limita a dire che «si intende per fanciullo ogni essere umano avente un'età inferiore a diciotto anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile». L'articolo 4.1 della Convenzione interamericana dei diritti umani (1969) è più esplicita al riguardo: «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita. Tale diritto è protetto dalla legge e, in generale, dal momento del concepimento nessuno sarà arbitrariamente privato della vita». Lo spazio di questi miei interventi non consente di addentrarsi nel campo della Bioetica e del nascente Biodiritto, per tentare di affrontare i temi del testamento biologico, dell'eutanasia, dell'accanimento terapeutico, dalla cura del dolore, dell'aborto, delle cellule staminali, ecc.
In conclusione, se c'è l'obbligo di difendere la vita, anche a prescindere da un accordo generale sulla data del suo inizio, non c'è posto né per la pena di morte né per la guerra. L'antinomia è di carattere assoluto. Coloro che difendono la vita ma avallano la legittimità della «guerra giusta» e magari anche esaltano il «mercato», non sono credibili.
Antonio Papisca
Cattedra UNESCO «Diritti umani, democrazia e pace» presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell'Università di Padova.