Commento di Antonio Papisca
Il contenuto di questo articolo è ribadito dall'articolo 8 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, con l'aggiunta di altri commi, in particolare il 3.a) che dispone: «Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato od obbligatorio».
Il divieto di schiavitù è tra i più antichi del diritto internazionale consuetudinario. Risale al 1815 una Dichiarazione riguardante l'abolizione della tratta degli schiavi. È del 1904 il Trattato internazionale per la soppressione della tratta delle bianche, del 1910 la prima Convenzione per la soppressione del commercio delle bianche, del 1921 la Convenzione per la soppressione del traffico di donne e minori, del 1926 la Convenzione sulla schiavitù, del 1933 la Convenzione per la soppressione del traffico di donne maggiorenni, del 1949 la Convenzione per la soppressione del traffico di persone e lo sfruttamento della prostituzione altrui, del 1956 la Convenzione supplementare riguardante l'abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi e degli istituti e pratiche analoghe alla schiavitù, del 2000 il Protocollo «tratta di persone, in particolare donne e minori» allegato alla Convenzione internazionale contro il crimine transnazionale organizzato. Esistono numerosi altri strumenti giuridici internazionali in cui figura il divieto relativamente a soggetti quali donne, bambini, detenuti, lavoratori, migranti.
Ho richiamato la lunga lista di carte giuridiche per sottolineare che la materia in questione è debordante, è come una piaga che non si rimargina, anzi si allarga a mò di metastasi. Le cosiddette forme moderne di schiavitù sono appunto espressioni di metastasi, alla cui riproduzione contribuiscono certamente i processi legati all'interdipendenza planetaria e alla globalizzazione. Il «traffiking» di donne e bambini è forma moderna di riduzione in schiavitù. Certamente è una forma di riduzione in schiavitù l'arruolamento di bambini nei corpi militari e paramilitari e il loro impiego sul campo in azioni di violenza, nonché in «peggiori forme di lavoro minorile». Per la prevenzione e soppressione di queste forme di schiavitù sono in vigore i due Protocolli (2000) alla Convenzione internazionale sui diritti dei bambini, rispettivamente sul loro coinvolgimento nei conflitti armati e sul traffico, prostituzione e pornografia infantile, nonché la Convenzione del 1999 sulle peggiori forme di lavoro minorile.
Ci sono forme subdole di riduzione in schiavitù come quelle praticate da sette e da fondamentalismi di varia ascendenza. Una forma tanto diffusa quanto di difficile sradicamento è quella domestica. Forma di schiavitù ripugnante è quella perpetrata dal «caporalato» nei riguardi di contadini e operai provenienti da paesi poveri. E c'è la riduzione in «servitù», se non la vogliamo chiamare «schiavitù», di interi strati sociali ad opera di cosche mafiose, n'drangheta e camorra. Ancora. Il tradizionale commercio di schiavi dall'Africa è cessato, ma c'è la schiavitù di intere popolazioni, in varie parti del mondo, costrette alla monocultura e quindi a rinunciare all'autosufficienza alimentare. Di contro, c'è la schiavitù prodotta dal virus del consumismo nei riguardi di quella minoranza d'umanità che a suo tempo schiavizzava i popoli coloniali. Una forma di schiavitù, estremamente pervasiva, è quella elegantemente coltivata dal Fondo Monetario Internazionale all'insegna delle politiche di «aggiustamento strutturale», cioè dello strozzinaggio nei confronti dei più deboli.
Le legislazioni nazionali ed europea tentano di arginare la metastasi delle moderne e antiche forme di schiavitù. Il loro compito sarebbe agevolato se avessero il coraggio di recepire integralmente, per esempio in appropriate leggi sull'immigrazione e sui diritti di cittadinanza, l'approccio «diritti umani» che è proprio della normativa delle Nazioni Unite e dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro.
Antonio Papisca
Cattedra UNESCO «Diritti umani, democrazia e pace» presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell'Università di Padova.