«Ma quante ore fa l'ausiliaria che viene a casa mia per lavarmi?». È una delle domande che si pongono i cittadini con disabilità cui è stata recapitata la lettera del Comune di Terni in cui viene chiesto di presentare il proprio Indicatore di Situazione Economica Equivalente (ISEE) per compartecipare alla spesa dei servizi (in particolare per i servizi di assistenza domiciliare diretta e assistenza semi-residenziale).
Infatti, oltre alla dichiarazione ISEE individuale e quella familiare (quest'ultima che verrà adoperata - sebbene non venga esplicitato - per soli fini statistici), viene richiesta anche la dichiarazione di fruizione del servizio.
Questo aspetto apre la porta ad una serie di questioni che vorremmo brevemente esaminare.
La prima riguarda la consapevolezza delle persone rispetto ai servizi di cui usufruiscono. In linea di massima, infatti, riteniamo che sia giusto compartecipare al costo dei servizi laddove questo implichi una maggiore responsabilità delle persone nell'utilizzare risorse pubbliche (e, quindi, minori sprechi).
Ma la responsabilità comporta la partecipazione delle persone alla gestione dei servizi, sia in termini di definizione degli obiettivi da raggiungere, sia in termini di libertà di scelta rispetto ai servizi erogabili, ossia la possibilità di scegliere i servizi che dovrebbero permettere alle persone di raggiungere gli obiettivi di vita.
Sembra che di questa responsabilità/partecipazione non si sia tenuto troppo conto nell'erogazione dei suddetti servizi. A partire dalla chiarezza delle finalità con cui si richiedono le due dichiarazioni dell'ISEE, fino ad arrivare all'uso di termini "oscuri" per la maggior parte dei cittadini ternani, quali "assistenza tutelare" (ossia l'assistenza domiciliare finalizzata a prestazioni di cura della persona, come l'igiene personale, la vestizione, ecc.).
Come già anticipato qualche tempo fa in queste pagine (si legga qui), la Regione Umbria ha abbassato il limite della prima soglia ISEE (quella dove il cittadino non è chiamato a contribuire alla spesa) da 7.185,60 Euro a 4.800,00 Euro, adeguandosi al parametro che l'ISTAT adopera come soglia di povertà assoluta.
Questa equiparazione tra povertà e disabilità, però, onde evitare equivoci nei confronti delle persone con disabilità più abbienti, deve essere considerata all'interno di un discorso più ampio che tenga conto anche del valore della «ricchezza relativa», ossia della possibilità di disporre di una serie di beni a prescindere dalla necessità contingente nei confronti di prestazioni assistenziali.
Il concetto di «ricchezza relativa» meriterebbe un discorso a parte, ma si può - a rischio di banalizzarlo - riassumere con un semplice esempio: se io dispongo di 1.000 euro, mi possono considerare più ricco (in senso relativo) di uno che possiede 800 Euro? Sì, se posso disporre del mio denaro nelle scelte e negli interessi che coltivo; no, se sono costretto a spendere parte cospicua del reddito per assicurarmi ciò che l'altro fa gratuitamente. In altre parole, se devo spendere 500 Euro per essere lavato e vestito - tanto per fare un esempio - il reddito che dispongo per fare altro è decisamente inferiore di quello che possiede 800 Euro, ma non deve spendere nemmeno un centesimo per compiere le principali attività di vita quotidiana.
Tutto questo per precisare che, nell'individuazione dei criteri di compartecipazione, è importante tener conto di molteplici aspetti che non devono limitarsi al solo al reddito disponibile o al patrimonio, né alla sola certificazione di «stato di handicap in situazione di gravità» (così come previsto dall'articolo 3, comma 3 della Legge n. 104/1992).
Tutti questi, infatti, non dicono nulla degli effettivi costi che la condizione di salute di una persona, in relazione con un ambiente di riferimento ostile, comporta per la stessa e per la propria famiglia.